27/10/2025
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Quando Robert Redford decise di dirigere, produrre e interpretare L’uomo che sussurrava ai cavalli, credeva di affrontare semplicemente una storia intensa: un film sulla guarigione, sulla perdita, su quel legame fragile e misterioso tra l’uomo e l’animale. Ma non immaginava che quel progetto avrebbe trasformato per sempre il suo modo di vedere i cavalli — e, in fondo, anche se stesso.
Redford non era certo un principiante. Aveva cavalcato in tanti film, da Butch Cassidy a Jeremiah Johnson. Per lui, i cavalli erano compagni di scena: forti, imponenti, ma pur sempre strumenti di lavoro. Poi incontrò Buck Brannaman, l’uomo che aveva ispirato il personaggio del “sussurratore”.
E tutto cambiò.
Buck non domava i cavalli. Li ascoltava. Gli insegnò che un cavallo non va vinto, ma capito. Che la sua paura, il suo silenzio, la sua fiducia, sono parte di un linguaggio invisibile — che puoi decifrare solo se hai la pazienza di restare in ascolto.
Redford ne uscì sconvolto.
“Ho capito che i cavalli non mentono mai,” raccontò. “Ti mostrano chi sono, se sei disposto a guardarli con rispetto. Quell’onestà mi ha colpito nel profondo.”
Durante le riprese, spesso rimaneva da solo sul set, anche quando tutti se ne erano andati. Appoggiato a una staccionata, nel silenzio dorato del crepuscolo del Montana, osservava i cavalli respirare, muoversi, vivere. Era come se da quella quiete potesse attingere qualcosa che nessuna parola avrebbe mai saputo dire. Non era più cinema. Era connessione.
Da quel giorno, Redford non si limitò più ad amare i cavalli. Cominciò a venerarli. In loro vedeva verità, spirito, libertà. Il riflesso puro di ciò che aveva sempre cercato: nell’arte, e nella vita.
“Quel film non è stato solo un’opera,” disse una volta.
“È stata un’iniziazione. Alla bellezza. Alla saggezza di un essere che non parla, ma che ti dice tutto.