26/10/2025
Una storia vera: il cavallo e gli Dei
La giornata era finita. Con la sera veniva una foschia umida, che faceva bagnate e sporche tutte le cose: i muri, il selciato, la porta di ferro, in fondo al cortile, che era stretto tra le case alte. La porta di ferro si apriva, ad intervalli, lasciando filtrare nel cortile un poco di luce che dava rilievo, nel fondo del cortile, ai cavalli legati sotto al portico. L'uomo usciva dalla porta, veniva verso i cavalli, ne slegava uno, lo conduceva, tenendolo per la capezza, verso la porta, che si richiudeva dietro loro. Sopra il muro, più in alto; sopra la foschia, più in alto; sopra le nuvole, e più in alto ancora, immersi nella notte delle stelle, un Elfo ed una Dea passeggiavano a cavallo. Non avevano un volto come il nostro, perché il volto degli Dei è diverso dal nostro. Ma i cavalli degli Dei sono esattamente come i nostri. Fatti come quelli che si vedono nelle stampe antiche: ben inquartati e con un'incollatura arcuata. Guardarono in basso: sotto le nuvole, più in basso; sotto la foschia e più in basso ancora. Fino nel piccolo cortile scuro.
«Non è bello. Non è bene,» disse la Dea. «È vero,» disse l'Elfo, «ma è questo il mondo degli uomini. Così.»
«Cambiamolo,» disse la Dea. Negli occhi dell'Elfo comparve un'espressione triste, una melanconia profonda. «Non è possibile,» disse, «hanno il loro mondo. Il loro libero arbitrio. Non possiamo usarli come burattini.
«Lo so, lo so,» disse come spazientita la Dea, «vorrei solo che... vedi, quel cavallo laggiù, Ussaro si chiama, potesse almeno avere il potere di un uomo, non quello di un dio. Potesse disporre di sé.»
«Ma è cavallo,» disse tristemente l'Elfo. «Sì. Ma che possa liberarsi!» «Liberarsi? Veramente? Ma è da Dei, non da uomini,» disse l'Elfo.
Ma la Dea aveva gli occhi velati, pieni di tristezza. «Sia come vuoi,» disse l'Elfo, agitato dalla commozione. Ussaro, il cavallo baio scuro, nel cortile pieno di nebbia, vide come uno scintillio. Come una lucciola nel buio. Capì subito. Davanti a lui, travestita, con una vestaglia di tela blu, da operaia, la Dea lo guardava.
Ussaro scosse il collo, come per scacciare le gocce di umidità dalla criniera. «Ti saluto,» disse. «Ti saluto anch'io,» rispose la Dea. Cavalli e Dei hanno sempre parlato, tra loro. Facilmente con quelli della terra. Di quelli del cielo, i cavalli hanno un po' più soggezione.
«Sono venuta per te,» disse la Dea, «per darti quello che vuoi. La libertà anche. Tutto ciò che vuoi!»
«Vedi,» disse Ussaro, «ti devo dire. Sai, la mia vita è cominciata in montagna. I primi ricordi sono cominciati in una stalla piccola, bassa, fatta di pietre. Se fuori era freddo, ci si stava bene. Uscivo a mangiare nel pascolo: era come un buco verso il cielo, tra alberi altissimi. C'era tanto silenzio.
Se nitrivo, il nitrito si fermava subito tra il fitto delle piante. Poi, ricordo un me bastone sulla schiena, e lavoro. Né percosse, né carezze. Solo lavoro. Capezza, corda, basto, carico. Strade tagliate nel bosco, acqua di torrente, gelida, veloce. Io ero grande e forte.
«Un giorno venne un uomo che non conoscevo. Parlò un poco con l'uomo che mi teneva con sé
e mi portò via.
«Scendemmo per strade che diventavano sempre più grandi. Poi vidi tante case ed una piazza. C'erano tanti cavalli. Alcuni allegri. Altri, con il muso alto, a roteavano gli occhi mostrandone il bianco. Scalpitavano. L'uomo che mi aveva con sé mi legò ad una pianta, con una corda.
A proposito, perché gli uomini legano i cavalli? Non sanno che con la nostra forza ce ne potremmo andare comunque?»
«Ma non lo fate quasi mai,» disse la Dea. «Perché siamo cavalli!» rispose Ussaro. E lo disse con una dignità ed una fierezza che sorpresero la Dea. «Sei un cavallo molto orgoglioso,» disse. «Sono solo un cavallo,» rispose quieto Ussaro. «Né orgoglioso né molto. Solo cavallo.» Tacque un poco, poi riprese. «Degli uomini di un gruppo mi guardarono da tutti i lati. Uno mi toccò, mi guardò in bocca. Parlò un poco con gli altri e mi portò via. Un altro uomo mi aveva con lui.»
«Avevi un altro padrone,» disse la Dea, sorridendo calcando un poco sulla parola padrone. «I cavalli non hanno un vero padrone,» disse Ussaro.“Gli uomini credono di essere padroni. I cavalli, come gli Dei, sanno che non si possiede nulla. I cavalli stanno con qualcuno, non gli appartengono. Lavorano per qualcuno, non sono, nella loro vera essenza, di qualcuno. E ciò fa impazzire gli uomini più sciocchi. Quelli che quando ci guardano negli occhi, si turbano a vederne il cupo profondo. Perché il nostro profondo è anche il loro. Cosi, quando l'uomo guarda negli occhi il cavallo, vede anche se stesso. Ed ha paura. Perciò preferisce credere di possederci, e basta.
«Arrivai fino ad una stazione e vidi dei vagoni, pieni di cavalli. «Venni bastonato. Senza alcun motivo. Venni chiuso in un vagone con altri cavalli. Stretto, fame, sete, buio, odore acre e rumore di ferraglia. «Poi silenzio. La porta del vagone si aprì. Vidi una notte chiara. Poi ebbi la quiete di un grande capannone. Ebbi anche fieno ed acqua. «Al mattino venne l'uomo che mi aveva con se. Venne con un altro uomo, una donna, un ragazzo. «Mi fecero girare, di corsa. Poi, l'uomo, la donna ed il ragazzo mi presero con loro. «Dove andammo c’ erano prati verdi. La luce era più forte di quella del posto dove ero nato, più calda. L'acqua dell'abbeveratoio gocciolava rumorosa. «I cavalli correvano e pascolavano. Un giorno mi misero addosso una sella. II ragazzo sale per primo in groppa. Poi, a turno, la donna e l’uomo.
Ridevano ed erano contenti. «L’uomo, poi, mi sellava ogni giorno. Uscivamo soli, lui e io, per la campagna. Ogni giorno mi voleva insegnare dei comandi. Mi piaceva impararli.
«Mi piacque. E, a poco a poco, finii per voler loro bene.
Ai bambini della fattoria, che chiamavo nitrendo, quando comparivano sul sentiero, al ritorno da scuola. All'uomo, che, quando mi saliva in groppa, mi parlava sempre. Alla donna. Al ragazzo.
Fu così che, una notte, feci una cosa che non avevo mai fatto. «Una cosa che i cavalli non fanno quasi mai: provai a sognare il domani. Mi piacque. Cosi, ogni notte, nella quiete della scuderia, sognavo il domani. La vita che avrei vissuto. La donna, il ragazzo, l'uomo che mi era amico.
«Poi, una mattina, mentre pascolavo, tranquillo, venne l'uomo. Aveva con sé altri uomini. Mi consegnò a loro. Mi disse solo: "Ciao, Ussaro" e svoltò il capo, per non guardarmi. Il resto della mia vita non ha storia. Ora sono qui.» E Ussaro concluse così il suo racconto.
«Sono qui io con te,- disse la Dea. «Ti dico una cosa importantissima: hai avuto la libertà di agire, di potere. Di andare dove vuoi!»
«Un miracolo?» chiese Ussaro «Se vuoi, sì, un miracolo,» disse la Dea.
Ussaro stette un poco in silenzio.
«A che pensi?» chiese la Dea.«A nulla,» rispose Ussaro, «non voglio pensare più»,
« Ma te ne puoi andare, ti ripeto. Nei prati! Vivere!»
«È forse molto bello,» disse Ussaro, «capisco la tua bontà. Non credere che non te ne sia grato. Ma non posso accettare. Perché, vedi: per essere libero, felice, dovrei poter sognare: ma non lo posso più fare. Il cavallo, lo sai, può fare un sogno solo e lo fa di rado. Guai se gli uccidono il suo sogno. Non ne fa più. Il cavallo è troppo coerente: non si permette l'inganno dei sogni falsi. Il vero è il suo mondo. L'uomo, invece, sogna sempre. Anche sogni falsi. Così riesce a nascondersi la realtà. Anche a non vedere se stesso. Come ha fatto quell'uomo, al quale ho voluto bene, che ha girato il capo per non vedermi quando mi ha venduto. Forse quell'uomo sogna ancora oggi che sono un cavallo felice: però non crede del tutto nel suo sogno. Fa, come tutti gli uomini, sogni falsi.»
Ussaro tacque un poco, poi riprese: «Vedi, Dea: tu mi vuoi offrire molto. Ma io ho già tutto. Sono cavallo. Ho avuto una vita da cavallo. Avrò una morte tutta mia, coerente. Da cavallo.»
«Ma puoi avere altro!» gridò quasi la Dea. «Non posso,» disse, quieto, Ussaro. «Non posso. Ti ripeto: il mio sogno l'ho fatto. Per vivere, avrei bisogno del mio sogno. Ma lo ha ucciso, il mio sogno, quell'uomo dai molti sogni falsi. Ti prego, Dea, non essere triste. Io non sono triste. Sono un cavallo. Un cavallo e basta.»
Ussaro, dette queste queste parole, sfilò con uno strattone la corda che lo legava al muro. Si girò. Attraversò con passo lento il cortile sporco di foschia e scomparve, attraverso la porta che portava al mattatoio. La porta si chiuse dietro di lui, senza rumore.
Di Ermanno Ferrero